Pubblicato da: Storm | 5 dicembre 2010

The Land of Make Believe

Controllare ossessivamente l’orologio. Nell’affanno, desiderare che l’attesa imposta dalle lancette non conduca al nulla, allo stesso inesorabile circolo di vita e morte già indirettamente sperimentato.

Armarsi di pochi strumenti, uno sguardo limpido, un abbigliamento caldo ed  una mente placida ed innocente.

E poi salire, ignari,  su quel treno la cui folle corsa ci traghetterà verso la disperazione, ammirando stupefatti, chi, in bilico, fugge il rischio. Chi, sulla linea gialla di confine, attende il treno perfetto, quello che mai giungerà e li ripagherà con un’amaro spreco d’esistenza.

L’arrivo e la salita. Il vagone è vuoto, ma se ne percepisce l’usura. L’usura del tempo, degli anni, dei cammini già percorsi e ormai svaniti. Si avverte il peso di cui molti prima di noi si sono fatti carico, nel momento della presa di coscienza del destino dei vivi.

Partenza. Un fischio e poi il vuoto. Il silenzio dei giorni, lo scorrere dei soli e delle eclissi. Le vite incrociate, le luci soffuse e quelle spente. Le candele estinte ed una landa desolata, le uniche compagne di vita.

Ed una repentina collisione di sguardi. Apertura a volti estranei per scoprirvi forse, un po’ di noi stessi. Quegli occhi, quei tratti, di chi come noi affronta il medesimo destino di sofferenza. Di chi condivide, chi si affida, chi si apre a noi. Chi con noi osserva la mutazione del caldo sole iniziale in luna, una volta che la nebbia ha spiegato le sue ali.  Quel sole che prima tanto ossessivamente rincorreva il nostro treno ed ora ci abbandona, ci getta in pasto all’ignoto, all’ombra.

Le soglie dei nostri giacigli iniziano a grondare lacrime, tramutatesi in ghiaccio l’attimo seguente. Un gelo che trafigge il suolo d’una serie infinita d’aghi. E la pioggia batte, percuote il terreno, lo colpisce con forza, lo prostra a sè, sottolinea le imperfezioni del mondo.

Noi, tuttavia, ci sentiamo al riparo. Quell’io iniziale s’è fatto carico dei cuori incontrati ed ha mutato il suo volto in noi. Un noi destinato ad infrangersi alle barriere del mondo. Un noi ingenuamente legato all’eterno, un noi fragile come un’incudine di cristallo.

E quando l’impatto con il reale avviene, devastante è il risultato. Il sentimento della perdita diviene invasivo, letale. Si tenta un disperato appiglio al reale, con forze ignote, che prima nemmeno eravamo consci di possedere. Ma a nulla valgono gli sforzi. Il sole è gelido, la nebbia divora e il treno è in balia del mondo.

D’improvviso le porte che ci proteggevano decadono e si spalancano. Quanti passeggeri svaniscono in fermate non previste, quanti vorremmo tenere cuciti alla nostra pelle per impedire loro la fuga. Quanti invece salgono, si siedono nel posto accanto al nostro, e noi non percepiamo nemmeno. Sebbene tentino di fornirci calore, di proporci il loro mondo in cambio della nostra sofferenza.

E’ inevitabile. Scatta il meccanismo del registratore. L’egoistico desiderio di rimandare indietro il nastro, di rivivere quelle intemperie con ali d’angelo a proteggerci. Come se non ci fosse felicità migliore di quella trascorsa e la presa di coscienza d’aver permesso la fuga al nostro attimo di gloria divenisse eterno tormento. E’ un battito, una frazione di secondo, la piena dentro di noi. Se cediamo al sentimento, ci arrendiamo al ricordo, ai suoi loschi inganni, finiamo per porre fine alla nostra corsa, approdando in terre sconosciute, le terre delle illusioni.

C’è comunque qualcuno in grado di premere il freno. Che prosegue intimando autocontrollo alla mancanza, all’assenza. Che saldo afferra le redini della ragione e la riporta a sé. Ed è  proprio qui che si realizza l’esigenza di angeli dalle candide ali, e s’impone il rifiuto verso coloro che invece, subdolamente iniettano cemento nelle vene. Necessitiamo l’alto, il cuore del mondo, non ambiamo alla sepoltura in trincee di fiamme. Miriamo a ridonare forma e sostanza, ad un binario ormai usurato e a quel treno stanco e sfinito.

E così l’orologio riprende a girare confusamente, come impazzito. I giorni e le ore si evolvono, mutano forma. Ci offrono attimi passati, presenti e gettano luci e ombre sul futuro. Ci attendono al varco, al momento ormai prossimo della discesa. La conclusione fisica e morale del nostro cammino.

Quando i nostri piedi sgualciti e sanguinanti sfiorano il terreno, ciò che si affaccia all’esterno non è che il fantasma dell’avvio. Non resta niente dell’innocente cupola di partenza. Gli occhi sono ghiaccio, vedono le forme ma non ne distinguono la sostanza. La nostra pelle è lacerata da cicatrici ed emorragie interne, pericolose e letali. Gli urti sono fasi, le perdite continui salassi.  La mente ha smarrito la propria fermezza, non sa più tracciare una linea di separazione tra amore e ossessione. Perchè male e bene divengono le faccie della stessa medaglia. Si miscelano fino all’inverosimile, annebbiando la lucidità del ragionamento.

Ed il lacerante tragitto giunge al suo epilogo. Tra vette e fosse, tra venti siberiani e brezze marine. Ciò che resta è il nostro tessuto. Tessuto del quale è possibile percepire fili sgualciti e macchie indelebili, affinando i sensi. Tessuto del quale noi, e noi soltanto, conosciamo a memoria la trama.

Perchè in quelle trame sono racchiuse frazioni d’esistenza. E noi soli, abbiamo consentito a fibre marce d’intrecciarsi alle sane. Perchè solo noi siamo gli artefici del dolore che consentiamo, che non combattiamo con giusta efficacia. E dunque noi, gli unici in grado di ricucire i giusti lembi di vita, in un’unico tessuto da indossare con orgoglio. Perchè sarà quello l’abito che costituirà il nostro io, abito che ci rappresenterà aldilà delle maschere protettive del quotidiano. La nostra essenza, il frutto delle nostre attese, delle nostre fermate, della nostra discesa. Il nostro vero valore.

Perchè per quanto doloroso ed accecante, lo scorrere dei soli è degno d’esser fotografato. Sta a noi trarre la giusta quantità di luce da ogni eclissi. Solo così, acquisiremo completezza e forza necessaria a vivere il peso dell’esistenza senza venirne travolti. E così soltanto, afferreremo il nostro vero essere, nella strada infinita, tra le arterie del mondo.


Risposte

  1. mi piace molto questo post perchè hai riassunto tutto quello che penso io…sta a noi trovare i giusti passeggeri con cui condividere il viaggio, solo con alcuni vale la pena condividere lo scorrere dei soli ed, una volta individuati, possiamo star sicuri che non ci saranno piu’ fibre marce a comporre la nostra trama…insieme a questi compagni di viaggio, riconoscerle, diventa anche piu’ semplice.
    basta una semplice riflessione di una persona vicina per giungere a conclusioni che fino ad un attimo prima sembravano inarrivabili.
    con questa consapevolezza puoi benissimo cercare di andare avanti, resta vicina alle persone che ti vogliono bene, tutto andra’ meglio


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